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June 24 2019

Alla ricerca di nuove dinamiche di gioco e nuovi generi

Artificial Intelligence Gamification News

 

Pietro Righi Riva è uno dei più noti sviluppatori italiani indipendenti di videogiochi. Co-fondatore e direttore creativo dello studio Santa Ragione, che ha prodotto videogiochi pluripremiati come MirrorMoon EP, FOTONICA e Wheels of Aurelia, insegna “game production” nel Master in Game Design dell’Università IULM. I suoi lavori sono stati esposti alla Triennale di Milano, alla Biennale di Venezia e all’MCA di Chicago. Il settore dei videogiochi, forte di un’espansione velocissima, anche in Italia è ormai in grado di competere con le tradizionali industrie dell’entertainment e del software e la sua avanguardia creativa, quella della produzione indipendente, rappresenta un punto d’osservazione privilegiato sugli impatti che le nuove tecnologie applicate a questa industria potranno avere nel mondo della comunicazione.

In quale contesto opera il settore degli “indie games” in Italia?

Non esiste un contesto preciso e condiviso per le case di produzione di videogiochi in Italia. Ciascuna realtà si configura su una combinazione pressoché unica di formati (tipologia di gioco, budget, piattaforma), modelli di business (autopubblicazione, servizi b2b, bandi, publishing tradizionale) e reti di supporto. Per esempio, Santa Ragione produce titoli di formato medio/piccolo (budget inferiore al mezzo milione di euro) su idee originali, quindi creando nuovi brand e nuove proprietà intellettuali, pensate per il mercato internazionale e per l’autopubblicazione. Il nostro contesto, quindi, non è strutturalmente italiano: in Italia abbiamo sicuramente una rete di colleghi e amici che fanno videogiochi simili ai nostri con cui condividiamo contatti, organizziamo eventi e conferenze, ma non esiste ancora una struttura formalizzata che dia un supporto significativo agli sviluppatori indipendenti, nonostante l’AESVI (Associazione Editori Sviluppatori Videogiochi Italiani) stia cercando di colmare questo vuoto da anni. Contemporaneamente siamo anche molto isolati dalle altre arti e dalle altre industrie e a questo proposito non posso non citare l’eccellente lavoro di IVIPRO (Italian Videogame Program), che sta cercando di mettere a sistema le film commission, le regioni e i musei con gli autori di videogiochi.

Anche nei videogiochi – così come per la musica, il cinema o i fumetti – “indie” ha finito col definire uno stile oltre che una dinamica di produzione?

Il dibattito è ancora in corso. Con l’introduzione degli store digitali, la diffusione degli smartphone e la democratizzazione delle tecnologie di produzione sono seguiti i primi successi del ritorno all’autoproduzione: i titoli usciti in quel periodo (2006-2012) hanno introdotto generi ed estetiche che ancora oggi qualificano il videogioco “indie”. Contemporaneamente anche le più grandi case di produzione hanno iniziato a produrre titoli con budget ridotti e destinati alla distribuzione digitale, rifacendosi allo stesso stile e adottando le stesse innovazioni dei giochi più propriamente “indie”. Così come nella musica e nel cinema, il termine oggi indica un contesto di sperimentazione facilitata dalla riduzione del rischio in termini di costi di produzione e distribuzione.

La tua filosofia progettuale mira a “rendere i videogiochi accessibili ad un pubblico più ampio”, come? Questione più di tecnica, di realizzazione o di contenuto, di storytelling?

L’idea è far competere sullo stesso piano i videogiochi con il cinema, la letteratura e la televisione nell’ambito dei consumi culturali – e quindi nella gestione del tempo libero – di un bacino di utenza che trascende fasce di età, livello di istruzione, sottoculture di riferimento. Questa sfida è nello stesso tempo causa ed effetto di un ampliamento dei temi e dei formati, che a sua volta ha ricadute sia sui metodi produttivi sia su quelli distributivi. Quanto dura un videogioco è determinato da quanto dipende dall’input dell’utente, che dipende dal grado di accessibilità, che è legata alla soglia di attenzione, che deriva dal grado di coinvolgimento, che è determinato dall’affinità col tema trattato e così via. Ho cercato di mettere queste relazioni a sistema tramite uno strumento di design, o manifesto, che si chiama Rejecta. In pratica, Rejecta è una collezione di design pattern che aiutano a scardinare gli elementi tradizionali della progettazione e produzione di videogiochi, quelli in pratica in grado di limitarne l’appeal per il pubblico che attualmente non ne consuma.

I videogiochi sono stati e sono tuttora fondamentali nella ricerca sull’AI perché sono il perfetto terreno di confronto tra intelligenza umana e artificiale. Questo è un tema che abbiamo affrontato in altre interviste di questo progetto editoriale, con te vorremmo invece ribaltare il punto di vista e capire che cosa può fare l’intelligenza artificiale per i videogiochi: in che misura e in che modo è entrata finora in questo mondo?

Tradizionalmente, nel settore dei videogiochi, per AI si intende una collezione di procedimenti “euristici” o artificiali che viene utilizzata per simulare un comportamento in sistemi complessi, cioè sistemi in cui la macchina non può analizzare la scena di gioco nella sua totalità e prevedere tutti i possibili scenari. In quel caso esistono una serie di reazioni predefinite che vengono scatenate dall’osservazione di determinati “pattern”. L’uso tipico dell’AI in senso tradizionale è la simulazione di avversari con comportamenti umani, cioè personaggi controllati dalla macchina che osservano e reagiscono, come per esempio nel pathfinding, cioè nel movimento verso una destinazione attraverso uno scenario complesso.

Questo tipo di AI per i videogiochi viene criticato per non essere una “vera” AI, quella cioè comunemente definita dall’uso contemporaneo del termine “Artificial Intelligence” come un sistema di auto-apprendimento o machine learning. Questo tipo di AI viene utilizzato nei videogiochi principalmente per testing e tuning, cioè per la valutazione e il perfezionamento basati sulla raccolta e sull’analisi di grandi quantità di dati, come quelli sul comportamento dei giocatori all’interno del mondo di gioco.

Ci sono casi particolarmente apprezzati, che fanno scuola?

Parlando di giochi che presentano sistemi di vita artificiale, cioè con un focus sull’interazione con personaggi dotati di AI che apprende, penso siano ancora da citare due capostipiti, Creatures (1996) e Black & White (2001). In entrambi i giochi si interagisce indirettamente con creature in grado di apprendere comportamenti e interpretare l’ambiente in cui si trovano. Purtroppo da allora, nell’ambito più strettamente commerciale, non si è fatta molta ricerca sui modi per costruire nuovi formati di gameplay intorno all’innovazione nell’AI, ci si è piuttosto limitati a creare agents di gioco realistici che aumentino le varietà di situazioni nei giochi tradizionali, per esempio i soldati avversari virtuali nei giochi di combattimento, come nelle serie di Halo e F.E.A.R..

Negli ultimi anni alcuni giochi competitivi sviluppati con grandi budget stanno utilizzando l’AI per la resa di avversari virtuali realistici, il cui comportamento è derivato dall’elaborazione di big data che descrivono le azioni dei giocatori umani. Un esempio di successo sono i drivatar della serie Forza, piloti virtuali che competono in gare automobilistiche in modo idealmente indistinguibile da avversari reali. Per fare un esempio italiano, Milestone usa una tecnologia simile basata sul cosiddetto reinforcement learning in MotoGP19, che ottimizza i comportamenti dei piloti avversari sui dati di un grande numero di simulazioni.

Nello spazio indie invece, i due esempi più significativi per il loro potenziale espressivo sono due videogiochi narrativi. Il primo è Versu di Emily Short (2013), una piattaforma per personaggi che intervengono in modo autonomo in un racconto scritto, una specie di sceneggiatura dinamica in cui chi gioca interagisce con un cast di attori virtuali che rispondono alle situazioni utilizzando il linguaggio naturale e in modo coerente con le loro personalità e il contesto narrativo in cui si trovano. L’altro titolo è Façade di Michael Mateas e Andrew Stern (2005) che, come in un pezzo di teatro contemporaneo, mette chi gioca nei panni di un ospite a un cocktail party in casa di una coppia in crisi. Gli attori rispondono ai commenti e ai comportamenti di chi gioca: è infatti possibile spostarsi liberamente e interagire con alcuni oggetti della scenografia provocando le reazioni degli ospiti.

Quali sviluppi promette, da quale punto di vista soprattutto? In quale direzione modificherà le dinamiche di gioco? (Si è parlato, per esempio, della generazione degli scenari e delle animazioni di gioco in modo autonomo e dell’adattamento dei livelli di difficoltà in base al giocatore in tempo reale…)

Al di là dei miglioramenti “estetici” – come per esempio la generazione di texture procedurali, o animazioni realistiche che si adattano all’ambiente virtuale, o ancora l’applicazione dinamica di stili grafici mutuati in maniera automatica da immagini di riferimento, come visto nella presentazione di Google Stadia – ci sono delle innovazioni che effettivamente potrebbero trasformare le dinamiche di gioco e permettere la nascita di nuovi generi.

Per esempio, si possono immaginare tecnologie di simulazione e animazione per grandi numeri di agenti, permettendo la virtualizzazione di sistemi complessi come migrazioni e altri fenomeni sociopolitici. Da non sottovalutare anche le possibilità che questa tecnologia apre in termini di nuovi sistemi di input: grazie al riconoscimento di suono, testo e immagini si potranno realizzare giochi in cui è possibile parlare con i personaggi e dare comandi tramite il linguaggio naturale, scritto e parlato. Oppure ancora, possiamo immaginare una categoria di giochi basata sul riconoscimento tramite AI dei disegni fatti dai giocatori, trasformandoli per esempio in scenari esplorabili nei quali automaticamente vengono simulate proprietà fisiche e comportamenti degli elementi del disegno: “disegnare la pioggia fa crescere i disegni delle piante”.

Personalmente, sono in attesa di sviluppi sugli agenti autonomi per giochi narrativi, come negli esempi “indie” sopra citati. Uno degli aspetti più accattivanti è quello delle voci sintetiche, in grado di interpretare vocalmente il testo scritto non solo in modo corretto e realistico, ma adattato a voci uniche, caratteristiche del personaggio, e a uno stato emotivo che può variare di battuta in battuta. Una sorta di doppiaggio automatizzato che parte dall’analisi delle voci di attori reali permettendo la vocalizzazione di contenuti dinamici, ad esempio rendendo possibile alle voci in gioco di pronunciare il nome di chi gioca in modo organico all’interno di un discorso.

In altri settori dell’intrattenimento, come per esempio le serie tv, si lavora ad applicazioni AI per la generazione automatica di nuovi personaggi e trame che siano il risultato della ricombinazione creativa di elementi di successo estratti da database preesistenti. Potrà essere così anche per i videogiochi? La “fine” della creatività o una nuova sfida?

Sicuramente per un certo tipo di prodotti, potremmo dire “di mestiere”, quindi meno innovativi e più didascalici, ci sono componenti che oggi sono fatte a mano e che potrebbero essere prodotte da AI. Per esempio una serie di puzzle di crescente difficoltà, oppure livelli di gioco completabili con un set di mosse predefinito (come un livello dei platform bidimensionali, come quelli della serie Super Mario). Però la parte creativa strutturale, e soprattutto quella che riguarda la fabula e l’intreccio, non credo che sarà presto alla portata degli sviluppi nell’AI. Sarebbe invece più facile pensare a un sistema narrativo prestabilito, quindi scritto da autrici e autori umani, in cui agiscono personaggi guidati da AI “vera” che si comportano secondo schemi mutuati dai comportamenti di personaggi in un set di opere di riferimento.

Il tuo è un approccio che parte dai contenuti e utilizza i videogiochi come un mezzo di comunicazione anche per tematiche sociali: i videogiochi possono avere un impatto sociale?

La risposta è ovviamente sì, se si intende se i videogiochi come fenomeno di massa siano in grado di influenzare contesti altri della vita e della società. In termini di sistemi di scoring e gamification applicati per determinare comportamenti umani in contesti non di gioco, ci sono infiniti esempi, di natura quantomeno discutibile, come la ricerca applicata al gambling, e cioè alla promozione di comportamenti patologici nei giochi di scommesse, oppure i sistemi di controllo di massa come il nuovo Social Credit System nella Repubblica Popolare Cinese. Ci sono poi opere singole che hanno avuto un impatto trasversale diventando fenomeni culturali, come Minecraft o il più recente Fortnite, che hanno segnato con la loro estetica due generazioni successive di giovanissimi, tanto che era comune agli ultimi mondiali di calcio vedere gli sportivi esultare riproducendo le danze imparate nel videogioco. Anche dal punto di vista della contaminazione dei linguaggi è innegabile che il cinema oggi prenda in prestito un nuovo linguaggio di ritmo e composizione ispirato ai videogiochi d’azione.

Se invece si intende il videogioco come forma d’arte e mezzo di comunicazione e di sensibilizzazione per portare l’attenzione sui temi del contemporaneo, oppure più in generale per catturare la realtà in modo unico e significativo, allora la strada è ancora lunga. Esistono esempi di questo tipo di giochi, perlopiù nell’ambito più strettamente sperimentale e di avanguardia, ma dobbiamo ancora assistere a una popolarizzazione di queste correnti. E non è detto che l’AI, portando paradossalmente l’umano nel virtuale, non ci aiuti a compiere dei passi avanti significativi in questo senso.

 

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